Si parla di partito del lavoro. Come Ravenna in Comune non siamo soliti occuparci del dibattito in casa d’altri. In questo caso facciamo un’eccezione perché ci consente, una volta in più, di chiarire qualcosa che, invece, riguarda casa “nostra”, cioè i valori su cui abbiamo costruito il nostro progetto.
C’è una proposta avanzata dal Sindaco di Bologna di cambiare nome al Partito Democratico, cui è iscritto, trasformandolo in Partito Democratico e del Lavoro. Democrazia e Lavoro sono principi fondamentali della nostra Costituzione, figurano entrambi nel primo articolo e, dunque, risulterebbe una conferma dell’adesione ai valori incardinati dalla Carta l’aggiunta del “lavoro” all’attuale denominazione. Non a caso Lepore, il proponente, ha richiamato proprio i principi costituzionali per avanzare la sua idea: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro». Non ha esplicitato quanto è implicito nel dettato costituzionale: cioè la scelta di escludere dai valori che realizzano la Repubblica le rendite, che siano fondiarie o finanziarie poco importa, per mettere invece al centro la produzione. Sembra averlo comunque chiaro Lepore quando parla di «una nuova politica laburista democratica». Bonaccini, altro componente di quel partito che si è appena candidato a guidarlo, ha sostanzialmente respinto al mittente la proposta di cambiarne il nome dicendo: «Possiamo anche discutere di come cambiare ma non credo certo che abbiamo perso le elezioni perché ci chiamiamo PD». Ha aggiunto però subito che «nel Pd che ho in mente c’è la centralità del lavoro, anzi ‘dei lavori’». Ancoraggio alla “produzione” anche per Bonaccini, dunque, almeno a parole.
Se sono valori costituzionali, allora, perché il PD non può essere anche la nostra casa? Lo chiarisce benissimo il Sindaco di Ravenna, altro iscritto al PD, sostenitore di Bonaccini nella corsa alla segreteria di quel partito ma anche della proposta di Lepore. De Pascale cerca nel suo partito, infatti, «una forza politica che riconosca il lavoro come principale strumento di progresso economico, sociale e culturale con un nuovo patto fra lavoro dipendente pubblico e privato, autonomo e cooperativo e il tessuto imprenditoriale sano del nostro paese per una crescita giusta e sostenibile». In questo ci troviamo lontani. La Costituzione è di tutte e tutti ma un partito deve candidarsi alla rappresentanza di una parte e non del tutto, altrimenti il rischio è quello in cui sono incorsi un po’ tutti i partiti laburisti: essere riferimento sia per il lavoratore che per chi ne paga le prestazioni, essere partito sia dei padroni che dei lavoratori. Già oggi questa è la missione del PD ufficialmente dichiarata nel proprio statuto. Il risultato è quello che la bilancia va a pendere sempre dalla parte del più forte, cioè il padrone. Senza contare che, nei fatti, ha trovato casa nel PD sia il padrone imprenditore che quello delle rendite.
Ravenna in Comune (che pur non è un partito) ha scelto, nell’atto stesso della propria costituzione, di proporsi come rappresentante delle istanze della classe lavoratrice, non di quella padronale. Il nostro progetto si rivolge a chi ha un lavoro, a chi lo cerca e non lo trova, a chi è in pensione e a chi vorrebbe andarci, a chi va a scuola per acquisire conoscenze e non come momento di alternanza col lavoro, a chi rivendica la possibilità di vivere dignitosamente indipendentemente dal posto che occupa nella società. Non cerchiamo, come invece il PD, di rappresentare gli interessi del padronato. Qualcuno ha mai sentito il Sindaco, che parla di forza politica capace di guardare «con gli occhi concreti e giusti dei lavoratori e delle lavoratrici di oggi e di domani», dichiarare la propria vicinanza ai lavoratori in qualche sciopero? Ma lo stesso potrebbe dirsi per il segretario comunale o provinciale di quel partito. Ci ricordiamo invece bene l’algida distanza manifestata da de Pascale nei confronti dei lavoratori della Logistica Ferrari in subsubappalto dalla Marcegaglia che cercavano il suo aiuto in Consiglio Comunale in una vertenza capitale. Così come ci ricordiamo la calda accoglienza tributata ai Marcegaglia fratello e sorella in un’aula consigliare trasformata in palcoscenico per lo show padronale. Sono solo due delle tante tessere che compongono il mosaico del mondo del lavoro come lo vede il PD, dove i lavoratori sono tenuti in considerazione solo al momento del voto ed i padroni tutti gli altri 1800 e rotti giorni che separano dal voto successivo.
Se volesse marcare davvero una differenza tra il partito liberista che è stato sino ad ora ed un ipotetico slancio verso una rappresentanza popolare, allora il nome più adatto sarebbe quello di “partito dei lavoratori”. Una scelta chiara e partigiana che, però, il partito nato dall’abbraccio con gli eredi della Democrazia Cristiana non può compiere. Lo diciamo a beneficio di chi voleva che Ravenna in Comune si intruppasse nella coalizione di sostegno al sindaco nelle elezioni del 2021: con il partito liberista dei de Pascale, Bonaccini e Lepore (ma anche Schlein) non c’era e non c’è possibilità di alleanza. Loro coi padroni e noi con quelli che i padroni vorrebbero sfruttare per i loro interessi: il cambio del nome non cambia un bel niente!
[Nell’immagine sono ripresi alcuni simboli di partiti dichiaratamente “dei lavoratori”: in alto la sede del partito dei lavoratori brasiliano. In basso: a sinistra il PKK curdo, al centro il partito dei lavoratori paraguayano e a destra quello tunisino]
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“Giusto inserire ‘lavoro’ nel nome del Pd”. Il sindaco de Pascale sulla proposta di Lepore, sindaco di Bologna: “Sono d’accordo con lui, la sua proposta è interessante”