Se ne accorgono tutti, adesso, che ci sono stati troppi tagli alla sanità. Chi in buona fede e chi un po’ meno, in tantissimi dicono che le strutture deputate ad occuparsi della salute sono fragili, insufficienti e abbastanza spesso inefficienti. E così, molto mezzi d’informazione si esercitano in analisi e suggerimenti di ogni sorta. Il pregevolissimo “Tutta la città ne parla” di Radio 3, per esempio, sta dedicando numerose trasmissioni, fin dall’inizio della pandemia, dando voce alle denunce di chi (operatori sanitari, cittadini, amministratori) sottolinea le carenze e richiede interventi perché la medicina pubblica sia migliore, più estesa, più attrezzata, più tempestiva. Va detto che nonostante tutto la medicina pubblica sta facendo fronte, fra mille contraddizioni e un milione di ostacoli, alla pandemia, e chi vi lavora sta dando non solo il meglio di sé, ma probabilmente il meglio che c’è nella nostra società. La narrazione, abbastanza diffusa, della sanità pubblica come luogo di imboscati, di fannulloni e di burocrati (mentre quella privata sarebbe la sede delle “eccellenze”…) è smentita clamorosamente. In vero è stata periodicamente smentita in moltissime occasioni, diffuse nel tempo e nello spazio, ma mai con la visibilità attuale. E va detto anche che la situazione alle nostre latitudini non è paragonabile ad altre, in cui la sanità pubblica è sempre stata carente, e dai terribili anni ’90 è andata spesso letteralmente a rotoli. Tanto per dirne una, chi scrive si è trovato nelle condizioni di dover fare il tampone covid, e nel giro di tre giorni ha avuto prescrizione medica, prestazione con coda di mezz’ora scarsa e risultato. Testimonianze (anche personali) di molte altre zone geografiche raccontano situazioni ben diverse.
Tuttavia, a chi ha esercitato la professione di medico della sanità pubblica per tutta la vita, e contemporaneamente ha praticato l’impegno civile e svolto un attivismo nella sinistra di questo Paese, viene spontaneo proporre alcune considerazioni, perché le difficoltà della medicina pubblica vengono da lontano, ed è difficile costruire quel che vogliamo essere se non conosciamo bene quel che siamo stati .
Infatti, la storia dei “tagli alla sanità” ha radici antiche, e un decorso decisamente parallelo a quella dell’inversione del confronto politico e sociale. Se negli anni sessanta, settanta e almeno prima metà degli ottanta, la creazione di strutture sanitarie e il varo di provvedimenti di estensione del diritto alla salute venivano visti in maniera sostanzialmente condivisa come conquista sociale, come servizi per il bene comune, da quando le magnifiche sorti del neoliberismo e del mantra “mercato,mercato, mercato” si sono progressivamente imposte, anche gli investimenti sui luoghi della salute hanno cominciato a soffrire. Chiusure degli ospedali più periferici, riduzione di servizi consultoriali, contrazione della medicina del lavoro, insufficienza della medicina dell’ambiente, accorpamenti eccessivi di servizi ambulatoriali vari, demansionamento dei ruoli professionali, svilimento delle funzioni di medicina preventiva e igiene pubblica, sono stati elementi via via caratterizzanti di un andamento che creava di fatto una maggiore lontananza della struttura medica dal cittadino, e che viceversa ha cercato – nel migliore dei casi – di salvare le cosiddette eccellenze.
Un andamento nel quale, però, ben pochi possono dire di avere la coscienza pulita. A cominciare dai cittadini stessi, che magari hanno fatto petizioni e in qualche caso vere e proprie battaglie se veniva chiuso l’ospedalino del proprio paese, ma si sono ben guardati dal contestare la tendenza generale, e tantomeno dal premiare elettoralmente quelle (poche e piccole) forze politiche che in solitudine continuavano ad affermare il primato della cosa pubblica e nello specifico della medicina sociale. Forze politiche di minoranza che si sono prese sberleffi e insulti non solo dalla destra negli anni del berlusconismo, ma anche dalla neomoderata e neoliberale deriva della storia PDS-DS-PD (con le sue varianti, oggi calendiane e/o renziane). Non solo, ma anche nella “psicologia collettiva” c’è stata una svalutazione complessiva della funzione sociale della medicina. Onestamente, rispetto a un neolaureato in medicina che scegliesse il settore dell’igiene pubblica e a uno che optasse per la cardiochirurgia, quanta gente avrebbe dichiarato di apprezzare allo stesso modo le due scelte. Pure il sindacato ha molto da farsi perdonare, se è vero che una volta si facevano scioperi generali per la riforma sanitaria, oggi si considera conquista mettere nel rinnovo del contratto un po’ di welfare integrativo (tema che non va banalizzato e andrebbe approfondito, ma che comunque rientra appieno fra gli indicatori di una tendenza).
Discorso analogo vale per il corpo medico. Giustamente, adesso i medici (e le altre figure sanitarie) reclamano investimenti, potenziamenti, efficientamenti del settore pubblico e invocano il rafforzamento della medicina del territorio. E va loro dato atto che in diverse occasioni sono stati gli unici a lanciare allarmi (spesso caduti nel vuoto) proprio per i tagli. Ma non possiamo nascondere che anni addietro, molti stessi operatori (anche quando convinti sostenitori del pubblico) hanno visto con diffidenza e talvolta con fastidio gli investimenti nelle strutture e nelle figure territoriali, quasi che costituissero una medicina di serie B che di fatto sottraeva risorse a ciò che si poteva fare in ospedale. Un ricordo personale: quando, ormai nella notte dei tempi, venni assunto all’ospedale di Ravenna, mi si richiese la disponibilità a erogare parte del mio lavoro nelle strutture consultoriali del territorio. Non solo accettai di buon grado, ma anzi vedevo in tale impostazione un modo di mettere in pratica tutta quella ricerca, quella pratica sociale-professionale e quelle convinzioni civili e politiche che erano state per me nutrimento durante la vita universitaria, ai tempi di personaggi come Giulio Maccacaro, Giovanni Berlinguer, Franco Basaglia e tanti altri. Ma ricordo bene il mugugno di molte/i colleghi e colleghe, che fecero di tutto per riuscire a “liberarsi” del consultorio ed essere riportati all’interno della sola condizione di ospedalieri. Sorte che, dopo oltre un decennio, poi toccò anche a me, nel mio caso controvoglia, perché il mio dirigente apicale di allora (anni novanta, appunto) riteneva anch’egli che gli specialisti ospedalieri non dovessero essere “sprecati” nel lavoro sul territorio. E così i consultori diminuirono di numero, i corsi di educazione sanitaria nelle scuole non si fecero quasi più, e così via. Lo stesso vale per quasi tutti i settori.
Pur ribadendo che la nostra realtà locale-regionale resiste oggi molto meglio di altre, adesso – di fronte al morso feroce della pandemia – ci accorgiamo che l’igiene pubblica ha le mani nei capelli e si trova a combattere con poche armi contro un nemico crudele e potentissimo, che tante realtà della medicina “normale” devono sospendere le attività per concentrare energie sul fronte covid, che i medici di base si trovano spesso soli e scarsamente attrezzati, che la sanità privata qua e là coopera ma non supplisce appieno alle carenze forzose di quella pubblica, che sbandierate strutture come le “case della salute” non si capisce bene che cosa debbano essere.
Credo che in particolare a sinistra si dovrebbe aprire una discussione seria, profonda e non episodica su come si voglia costruire un nuovo modello di sanità, che vada di pari passo con un nuovo modello di società.
Pippo Tadolini, ex medico ospedaliero
[Nella foto: Torino e la processione di ambulanze il 3 novembre scorso]
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