9 ottobre 1963 – 9 ottobre 2024: sono passati 61 dalla distruzione della vallata del Vajont: i borghi di Frasègn, Le Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino e la parte bassa dell’abitato di Erto. Nella valle del Piave vennero rasi al suolo i paesi di Longarone, Pirago, Faè, Villanova, Rivalta. Molti altri paesi furono duramente colpiti: Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Dogna, Provagna, Soverzene, Ponte nelle Alpi, sino a Belluno. Un disastro epocale tutto da imputare agli uomini che si volevano riempire le tasche di profitti e che erano indifferenti ai rischi che questo avrebbe comportato. Fu per la cupidigia di persone con nomi e cognomi, puntualmente denunciati da Tina Merlin su L’Unità, che si costruì una diga per realizzare un bacino idroelettrico dove non doveva essere costruita. Proprio per questo le Nazioni Unite (nel 2008, Anno internazionale del Pianeta Terra) hanno preso questa vicenda di morte e cupidigia ad esempio negativo di valore mondiale: «Durante il riempimento del bacino un blocco di circa 270 milioni di metri cubi si staccò da una parete e scivolò nel lago ad una velocità fino a 30 metri al secondo (circa 110 chilometri all’ora). Di conseguenza, un’onda superò la diga di 250 metri e si riversò nella valle sottostante, provocando la perdita di circa 2.500 vite umane. La diga è rimasta intatta dopo l’alluvione ed è lì ancora oggi». Non ci furono errori di ingegneria, infatti, ma le evidenze geologiche furono subordinate ai soldi, il rischio concreto di provocare morti, feriti e devastazioni alla generalità della popolazione dei luoghi fu trascurato a vantaggio di pochi che ne uscirono con le tasche gonfie e senza conseguenze per le loro vite. Solo due persone furono condannate per quei fatti a pene lievi. Uno dei due, il responsabile del cantiere, scontò un anno e mezzo di carcere. Nessun padrone.
Ci sono tanti motivi che ci spingono ogni anno a ricordare il disastro del Vajont e a sottolineare che non fu il destino infausto a provocarlo. Quest’anno come Ravenna in Comune sottolineiamo l’insegnamento che dovrebbe venire dopo aver assistito alle inondazioni del maggio 2023 e a quelle dei giorni scorsi. I profitti spremuti in pianura cementificando e urbanizzando dove le acque avrebbero trovato sfogo, i guasti compiuti in una montagna sempre più abbandonata perché non redditizia e resa fragilissima e in preda alle frane: è spontaneo il paragone con i fatti del Vajont, il precipitare di una montagna, le acque che tutto travolgono, a causa della messa a frutto di un bacino che mai avrebbe dovuto essere realizzato.
Ravenna in Comune torna a ripeterlo: dobbiamo iniziare da subito a modificare quanto invece si sta continuando a ripetere. Fino ad oggi le morti umane sono state contenute, elevate quelle animali, sia domestici che selvatici, e il danno all’ambiente, al territorio. Alto il costo in termini di distruzioni, di beni economici azzerati, di ricordi di una vita finiti in discarica. Giustizia vuole che si indaghi e si riconoscano i colpevoli, questa volta. Forse questo aiuterebbe a prendere quelle indispensabili decisioni che, limitando la possibilità di edificare dove non si dovrebbe, aiuterebbero a salvaguardare le nostre vite per il futuro. Quello prossimo. Quello messo in pericolo già dalla prossima ondata di maltempo. Chi racconta oggi le cose come stanno è contrastato dal potere politico ed economico come accadde a Tina Merlin. È invece chi si oppone al cambio di paradigma che non deve più essere messo in condizione di arrecare danno. Ricordiamocelo alle prossime elezioni: centrodestra e centrosinistra sono il problema, non la soluzione. Ricordiamo il Vajont.
[Nell’immagine: la prima pagina de l’Unità l’11 ottobre 1963]
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Vajont: una ferita ancora aperta
Fonte: ANSA dell’8 ottobre 2024