LA CARCERITE DI GRAMSCI – COSE FUORI DAL COMUNE

Ieri è passato quasi inosservato l’anniversario della morte di Antonio Gramsci, il più noto prigioniero politico dell’Italia fascista. Sarebbe sciocco da parte nostra produrre una sintesi di ciò che non è sintetizzabile, ossia il pensiero e la vita di un italiano, un comunista, un intellettuale talmente debordante da non poter essere contenuto entro quelle fottute prigioni in cui fu incarcerato dal 1926. Talmente grande da superare gli anni suoi, complessivamente pochi e oramai a noi lontani, per restare una presenza viva grazie ai suoi scritti ben oltre i confini di questa Italia repubblicana che non vide mai, intrappolato in quella repubblichina. Eppure la dimensione carceraria, il passaggio del suo pensiero dal vaglio della censura, resta imprescindibile. Come scrive nella sua ultima lettera a sua moglie, Iulca Schucht, ne è ben consapevole: “1° dovrei passare per la trafila della polizia e questo 1° è già decisivo, per me”. Lui chiamava “carcerite” il modus pensandi che gliene era derivato.

È al Gramsci prigioniero che torniamo, dunque, nel rammentare che ancora oggi costituiscono parte integrante dell’universo detentivo italiano i prigionieri politici. A differenza che per altre categorie (età, provenienza, genere) non abbiamo dati relativi al loro numero esatto. Da parte del sistema giudiziario italiano si nega anzi la loro stessa esistenza, non potendosi ammettere limitazione della libertà in ragione delle idee professate in uno Stato che si dichiara democratico. Non conosciamo nemmeno la differenziazione per classi di reddito pur nella consapevolezza che il carcere è quasi sempre riservato a chi fuori stazionava sui gradini più bassi della scala sociale.

Quel che sappiamo, invece, è che al 31 marzo 2024 si contavano 61.049 persone detenute, nonostante le carceri fossero teoricamente in grado di trattenere sino ad un massimo di 51.178 reclusi. Le donne erano 2.619, pari al 4,3% del totale. A non possedere la cittadinanza italiana era quasi un terzo: 19.108 persone, ossia il 31,3%. Per un elemento di confronto a fine febbraio 2016 erano presenti nelle carceri italiane 49.504 detenuti su una “disponibilità” di 52.846 posti. Va sempre tenuto presente che la capienza ufficiale del nostro sistema penitenziario non corrisponde a quella reale poiché non tiene conto delle migliaia di posti indisponibili a causa di manutenzioni o ristrutturazioni. Le persone in carcere con un lungo residuo di pena da scontare stanno aumentando. Se guardiamo a chi ha ancora da scontare una pena superiore ai tre anni, ergastolani inclusi, troviamo che sono passati dal 36,2% dei presenti del 2010 al 48,7% del 2023. Poiché contemporaneamente vi è stato un calo della criminalità per i fatti più gravi, il fenomeno dipende totalmente dall’innalzamento delle pene.

Tutto ciò influisce sul peggioramento delle condizioni di detenzione ed a questo corrisponde il quadro di sofferenza che si registra. Nel 2023 per ogni 100 detenuti ci sono stati 18,1 atti di autolesionismo; 2,4 tentati suicidi; 3,5 le aggressioni al personale e 5,5 quelle verso altri detenuti. Nel 2024, al 15 aprile 2024, si sono registrati 30 suicidi in carcere: uno ogni 3,5 giorni. E aumenta anche il numero di morti in carcere per cause diverse dal suicidio: 42 quest’anno sino al 15 aprile, quando erano stati 88 in tutto il 2023. Sul totale dei detenuti sono 733 le persone sottoposte alle limitazioni del cosiddetto 41bis.

Questi sono i numeri che riguardano il carcere per gli adulti. Al 15 gennaio 2024 i detenuti nei carceri per minori (minorenni e chi ha compiuto il reato da minorenne) erano 496, di cui la metà stranieri. Numeri che non comprendono quanti si trovano reclusi nei centri di trattenimento per migranti irregolari.

È questo il quadro odierno della prigionia mentre leggiamo questa lettera di Antonio Gramsci datata 5 gennaio 1937, scritta dunque a pochissimi mesi di distanza dalla morte, avvenuta in una clinica di Roma il 27 aprile 1937 (era nato ad Ales, in Sardegna, il 22 gennaio 1891):

Cara Iulca,

anche la mia memoria non è molto buona (nel senso che dimentico le cose recenti, mentre ricordo spesso minutamente le cose di dieci, quindici anni fa), tuttavia so di certo che molte volte ciò che tu rispondi non risponde a ciò che io avevo scritto. Ma ciò non importa molto. L’importante è che tu scriva tutto ciò che ti viene nella fantasia… spontaneamente, cioè senza sforzo, lievemente. Io leggo parecchie volte le tue lettere; le prime volte come si leggono le lettere dei nostri più cari, dirò così «disinteressatamente», cioè col solo interesse della mia tenerezza per te; poi le rileggo «criticamente», per cercare di indovinare come tu stavi durante le giornate in cui hai potuto scrivere, ecc.; osservo anche la scrittura, la sicurezza maggiore o minore della mano ecc. Insomma, dalle tue lettere cerco di estrarre tutte le indicazioni e significazioni possibili. Credi che questa sia pedanteria? Non credo: forse un po’ di «carcerite» entra in tutto ciò, ma non la vecchia tradizionale pedanteria che, d’altronde, oggi, mi sentirei di difendere aspramente contro certa faciloneria superficiale e bohème che ha procurato tanti guai e ancora ne procura e ne procurerà. Oggi mi piace più un Manuale del caporale che i Refrattari del Vallès. Divago forse? — Del resto, tu mi scrivi benissimo dei ragazzi e le mie continue lamentele sono dovute al fatto che nessuna impressione, sia pur quella di te, di Iulca, che sento come parte di me stesso, può sostituire l’impressione diretta: credi che anche tu non vedresti nei figli qualche altra cosa di nuovo o di diverso, se li vedessi insieme a me? Ma gli stessi ragazzi sarebbero diversi, non ti pare? Proprio «obbiettivamente» diversi. — Cara, io voglio che tu abbracci la mamma per la sua festa. lo credo che tu abbia sempre saputo che in me c’è difficoltà grande, molto grande a esteriorizzare i sentimenti e ciò può spiegare molte cose ingrate. Nella letteratura italiana hanno scritto che se la Sardegna è un’isola, ogni sardo è un’isola nell’isola e ricordo un articolo molto comico di uno scrittore del «Giornale d’Italia» che nel 1920 così cercava di spiegare le mie tendenze intellettuali e politiche. Ma forse un pochino di vero c’è, quanto basta per dare l’accento (veramente dare l’accento non è poco, ma non voglio mettermi ad analizzare: dirò «l’accento grammaticale» e tu potrai divertirtene di cuore e ammirare la mia modestia grillesca). Cara, ti abbraccio con tutta la mia tenerezza.

Antonio

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Antonio Gramsci, il giornalista militante e gli anni torinesi

Fonte: il manifesto del 27 aprile 2024

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