Oggi è l’otto marzo: Giornata internazionale della donna. Non è mai stata considerata la data celebrativa di passati successi nella lotta per il raggiungimento della parità di genere. Ha sempre prevalso l’aspetto del necessario conflitto per raggiungere un obiettivo non ancora conseguito rispetto al momento festivo. E infatti per astenersi dal lavoro ogni anno occorre la proclamazione di uno sciopero.
Ravenna in Comune ha scelto quest’anno di contrassegnare il giorno con il ricordo di una violenza su una donna, una tra le tante che in ogni tempo sono avvenute ed avvengono, che risale a molti secoli fa: «nell’anno quarto dell’episcopato di Cirillo, decimo del consolato di Onorio, sesto di Teodosio II, nel mese di marzo», ossia nel marzo del 415 della nostra era secondo il calendario occidentale. La violenza ad Ipazia.
«Vi era una donna allora in Alessandria» narra la Storia ecclesiastica del contemporaneo Socrate, avvocato alla corte costantinopolitana, «il cui nome era Ipazia. Costei era figlia di Teone, filosofo in Alessandria, ed era giunta a un tale culmine di sapienza da superare di gran lunga tutti i filosofi della sua cerchia, esercitando l’insegnamento della scuola platonica derivante da Plotino, esponendo a un libero uditorio tutte le discipline filosofiche […]. Da ogni parte accorrevano a lei quanti volevano filosofare». Aggiunge il neoplatonico Damascio che «essendo per natura più dotata del padre, non si fermò agli insegnamenti tecnico-matematici praticati da lui ma si diede alla filosofia vera e propria, e con valore: pur essendo donna ella indossava il tribon [ossia il mantello riservato ai filosofi cinici maschi] e andava per le vie del centro della città a spiegare pubblicamente a chiunque volesse ascoltarla Platone, Aristotele o qualcun altro dei filosofi». «Un giorno», si legge in Suida, «accadde al vescovo Cirillo, mentre passava dinanzi alla dimora di Ipazia, di scorgere una gran ressa dinanzi alle sue porte, insieme di uomini e di cavalli, alcuni che entravano, altri che uscivano, altri ancora che sostavano lì in attesa […] Avendo domandato che cosa mai fosse quella folla, e il perché di un tale andirivieni attorno a quella casa, si sentì dire che era il giorno in cui Ipazia riceveva, che sua era la casa. Ciò appreso, Cirillo si sentì mordere l’anima: fu per tale motivo che organizzò ben presto l’assassinio di lei, il più empio di tutti gli assassìni».
Mandante fu il vescovo ed esecutori i parabalanoi, cioè i fanatici cristiani che costituivano la sua milizia. «Una moltitudine di uomini imbestialiti piombò improvvisamente addosso a Ipazia un giorno che ritornava a casa come suo solito». La figlia di Teone è tratta giù dalla lettiga e trascinata «alla chiesa che prende il nome dal cesare imperatore» e cioè nel cortile del Cesareo edificato da Teodosio. Qui, «incuranti della vendetta e dei numi e degli umani, questi veri sciagurati massacrarono la filosofa», scrive Damascio, «e mentre ancora respirava un poco le cavarono gli occhi». «La spogliarono delle vesti, la massacrarono usando cocci aguzzi, la fecero a brandelli. E trasportati quei resti al cosiddetto Cinaron, vi appiccarono fuoco» riferisce Socrate. «I pezzi del suo corpo brutalizzato vennero sparsi per tutta la città».
Il mandante del suo assassinio, Cirillo, santo e addirittura dottore della Chiesa, è stato celebrato da Ratzinger, già proclamato papa, come «custode della vera fede». Le fonti contemporanee ad Ipazia parlano invece della decisione di mandarla a morte come «macchia enorme e abominio». Il ricordo di una violenza lontana 16 secoli è attualizzato dalle violenze contemporanee contro le donne. Ravenna in Comune celebra così l’otto marzo 2024.
[Nell’immagine: Ipazia, unica donna rappresentata nella Scuola di Atene di Raffaello]
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Fermiamo l’onda nera
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