Si torna a parlare, per lo più a vanvera, di privatizzazione dei porti. Meloni prova a spegnere il dibattito che già indica vistose crepe nella maggioranza (e nell’opposizione pure) sostenendo che «non è all’ordine del giorno». Inevitabilmente, che Meloni lo voglia o meno, il tema tornerà ad affacciarsi nei prossimi mesi, come è sempre stato fin dal secolo scorso. Conviene dunque fare un minimo di chiarezza per capire di cosa si parla.
Uno dei temi è quello del lavoro svolto negli scali. Tra la fine degli anni “80 e la prima metà degli anni “90 del XX secolo chi parlava di privatizzare i porti intendeva sottrarre alle cooperative dei portuali il monopolio delle attività di movimentazione e stoccaggio delle merci che vedevano coinvolti la nave, il terminal e gli spazi intermedi. Dopo un periodo di forti contrapposizioni, la cancellazione del monopolio venne sancita dalla Legge di riforma dei porti del 1994, che pilotò la trasformazione delle compagnie portuali, introducendo un sistema di correttivi e di tutele e, soprattutto, iniettando consistenti dosi di democrazia in un rinnovato sistema di autogoverno dei porti, incardinato sulle autorità portuali. Gran parte della democrazia, che vedeva l’importante coinvolgimento dei lavoratori, fu fatta fuori nello scorso decennio, sostituendo le autorità portuali con le autorità di sistema portuale, attraverso un cambiamento molto più che lessicale, bensì di accentramento dei poteri. Ad oggi si susseguono le proposte per cancellare quanto rimasto delle compagnie portuali, deregolamentare completamente il lavoro portuale ed eliminare i residui vincoli allo sfruttamento dei lavoratori marittimi nelle operazioni portuali.
Un altro versante delle privatizzazioni riguarda la cessione di quote o della totalità di singoli terminal portuali nella logica di far cassa. Con la Legge del 1994 i soggetti pubblici che fino ad allora avevano prima costruito e poi gestito furono sbattuti fuori a vantaggio di imprese portuali, chiamate ad operare direttamente, senza l’obbligo di avvalersi delle compagnie portuali, in regime di concessione del bene pubblico. Il passaggio da infrastrutture demaniali a proprietà privata, anche se detenuta in parte da soggetti pubblici, metterebbe la parola fine ad una storia secolare.
Infine, il terzo capitolo delle privatizzazioni, riguarda il soggetto che adesso svolge la funzione di ente regolatore, l’Autorità di Sistema Portuale, per la quale si intravvede la trasformazione a società di diritto privato nelle intenzioni del Governo.
Il porto di Ravenna, diversamente dagli altri scali nazionali, vede già oggi la proprietà demaniale della sola fascia delle banchine e la piena proprietà privata delle altre indispensabili infrastrutture dei diversi terminal. Le aree ancora non infrastrutturate sono controllate da SAPIR, società mista pubblico-privata, e ciò esclude l’Autorità di Sistema Portuale da ogni ruolo di governo dell’espansione del porto. Inoltre, come detto in altra occasione, da gran parte del porto già infrastrutturato vengono da alcuni anni estromesse le società locali a vantaggio di grandi gruppi internazionali con sede all’estero.
Non è tanto per parlare che abbiamo fatto questo riassunto: al di là delle affermazioni di Meloni, infatti, la deadline del nuovo intervento normativo è stata fissata per la fine di quest’anno. E poiché si è scatenata la corsa a dire qualcosa pur non sapendo di cosa si stia parlando (la vaghezza delle affermazioni, per lo più ridotte a slogan, è rivelatrice dell’ignoranza che alberga tra le forze politiche locali e non solo), sarebbe importante avere il quadro della situazione prima di aprire la bocca tanto per parlare.
Ravenna in Comune è sempre stata a favore del mantenimento e, ove possibile, dell’incremento del ruolo pubblico e, pertanto, non è un mistero che considereremmo una sventura l’avanzata di tutte e tre le tipologie di privatizzazione qui descritte. Il porto di Ravenna è uno dei settori economici più rilevanti per l’economia locale, costato un prezzo elevatissimo sia in termini di risorse che di vite umane alla collettività. Un ulteriore, definitivo, passo nella direzione già intrapresa deve essere contrastato duramente. Ma non diciamo ciò per una questione meramente ideologica. Il controllo pubblico serve se e in quanto consente una qualità nei rapporti di lavoro di opposto tenore rispetto alla logica di sfruttamento del padrone privato. Allo stesso modo, il controllo dello scalo deve consentire di imprimere una direzione allo sviluppo dello scalo stesso che vada a vantaggio diretto e anche indiretto della collettività e non aderisca invece al mantra della massimizzazione dei profitti sopra ogni altra cosa. La natura pubblica dell’ente porto deve consentire il pieno dispiegamento dei controlli a tutela della sicurezza del lavoro e del rispetto della normativa di garanzia dei lavoratori, non già rappresentare un ostacolo in tal senso. E via di seguito. Il PD ed il centrosinistra, nelle rappresentanze istituzionali, hanno invece sino ad oggi rinunciato completamente al ruolo di governo della cosa pubblica, scambiandolo con la possibilità di occupare sedie da cui esprimere sempre e solo la linea dettata da via Barbiani (sede della locale Confindustria). Per tutto ciò Ravenna in Comune non aderirà alla mobilitazione annunciata dal PD locale che, come dice il suo segretario provinciale, si avvarrà “del lavoro fatto in questi anni e anche della risoluzione dei nostri parlamentari in commissione Trasporti alla Camera”. Perché è stato proprio quel lavoro a far avanzare nel Paese e nei porti quell’idea di privatizzazione che oggi dichiarano, a parole, di voler contrastare. Quando noi parliamo di proprietà “pubblica” del porto intendiamo dire che lo consideriamo tra i “beni comuni” più importanti della nostra collettività. Anche nella portualità, come nella sanità e negli altri servizi, quando il PD scrive “pubblico”, in realtà, si deve intendere “privato”.
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Ravenna. Pd contro il vicepremier: “Non si privatizzano i porti per fare soldi”