Il 15 febbraio di 22 anni fa il leader curdo Abdullah Öcalan, Apo, era rapito dai servizi segreti turchi in Kenya. Condannato a morte in Turchia, la pena era commutata in ergastolo. Da allora è prigioniero politico in un Paese in cui i diritti fondamentali sono quotidianamente messi in discussione. L’anniversario è particolarmente doloroso in quanto riporta alla mente uno dei tanti episodi di cui l’Italia porta responsabilità e vergogna. Aveva chiesto infatti asilo politico dopo essere arrivato in Italia nel novembre 1998 ma gli fu concesso solo un anno dopo quando già era in carcere in Turchia. Di seguito un articolo di Silvana Barbieri uscito su Il Manifesto di ieri.
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Per la libertà di Öcalan e del suo pensiero
Ho imparato a conoscere i curdi poco alla volta, dal 1981, ed è stato per me un modo di apprendere cosa sia una Resistenza all’oppressione. Il primo contatto fu nel 1981, anno successivo all’ennesimo colpo di stato in Turchia. Avevo intrapreso un viaggio che mi aveva portato in luoghi straordinari per la natura e le testimonianze archeologiche, dei curdi non sapevo nulla. Di questo viaggio conservo due ricordi precisi. Mentre viaggiavamo nel Kurdistan turco il nostro pullman turistico veniva continuamente fermato dall’esercito, salivano due o tre militari con il mitra in mano, non chiedevano i documenti ma venivamo squadrati uno per uno. Una volta ci fermammo a mangiare in una trattoria su una collina sopra Van, ci servì un uomo cui chiesi «ma qui siamo in Kurdistan?»: quell’uomo impallidì, guardò prima a destra poi a sinistra poi appoggiò il dito indice sulla bocca.
Seppi di più sul popolo curdo, e su Öcalan, grazie agli scritti di Laura Schrader, che mi indussero a comprare i suoi libri. Così cominciai a farmi un’idea più precisa. Ma il coinvolgimento con questo popolo lo ebbi quando mio marito, Luigi Vinci, diventerà parlamentare europeo e si occuperà di seguire la revisione del processo, imposta alla Turchia dalla Corte europea dei Diritti dell’uomo, che aveva condannato al carcere nel dicembre del 1994 Leyla Zana, Hatip Dicle, Orhan Dogan e Selim Sadak, deputati di etnia curda, e che vi stavano da dieci anni. Di Leyla Zana avevo letto un capitolo in uno dei libri di Schrader e sapevo che il Parlamento europeo l’aveva insignita del Premio Sacharov per la pace.
Nel breve periodo in cui Öcalan, allontanato dalla Siria, rimase a Roma molti parlamentari lo andarono a trovare. Rimasi avvilita quando fu allontanato dall’Italia e sconvolta quando lo arresteranno. Ho davanti agli occhi le terribili immagini televisive con Öcalan legato e con il nastro adesivo incollato sulla bocca.
A Milano l’Associazione Punto Rosso fece partire una campagna per la scarcerazione di Leyla Zana, raccogliemmo 1.000 grandi firme, organizzammo un convegno cui parteciparono più di 500 persone, fu presente suo marito Medi. Producevo anche una piccola rassegna stampa selezionando articoli sui curdi, molti presi dal manifesto.
Nel febbraio del 2000 fui invitata, sempre per conto di Punto Rosso, a un incontro internazionale a Istanbul di solidarietà, organizzato da donne curde e turche. L’incontro doveva tenersi all’Università ma fu proibito, dovemmo arrangiarci altrove. Öcalan era stato arrestato da poco e il clima che trovai era di guerra, i militari erano da tutte le parti. Le compagne chiedevano solidarietà e la possibilità di far arrivare fuori dalla Turchia notizie sullo stato di assedio in corso. Avevo con me la tessera di Rifondazione Comunista di mio marito con l’autografo di Öcalan. Durante una pausa feci vedere la tessera ad alcune donne del gruppo curdo Madri della Pace, scoppiarono in lacrime, capii quanto Öcalan rappresentasse per loro.
Per due giorni raccolsi testimonianze sulla ferocia della repressione di stato nel Kurdistan turco: distruzioni di interi villaggi, stupri di bambine, adolescenti, donne quando arrestate da militari, polizia, Guardie del Villaggio (curdi traditori armati). Nessuna vittima degli stupri veniva abbandonata, fuori dal carcere c’era sempre una compagna di Hadep (il partito curdo legale) ad aiutare queste donne.
Capirò ancor meglio nel 2003-2004 la realtà curda di Turchia ascoltando le 14 udienze, una al mese, del rifacimento del processo a Ankara a Leyla Zana e agli altri tre suoi compagni, avendo modo di vedere come funzionassero le loro organizzazioni e il ruolo in esse delle donne, così come di vedere come funzionasse il tribunale turco «per la sicurezza dello stato», cioè un tribunale fascista. Lì intervistai il più giovane avvocato del collegio di difesa, Selahattin Demirtas, leader attuale dei curdi di Turchia, in carcere dall’ottobre 2016 e mai processato.
Il pensiero di Öcalan è venuto alla luce più di recente ed è oggi assai apprezzato a livello internazionale, grazie all’esperienza di autogestione e alla lotta contro l’Isis del Rojava curdo-siriano. La liberazione per via politica della donna dai gravami atrocemente oppressivi delle società mediorientali lì è integrata dal protagonismo diretto delle donne in tutte le sfere della vita sociale, e questo anche nella forma del loro armamento.
Il pensiero di Öcalan oggi rappresenta una forma avanzata di «socialismo del XXI secolo».
Silvana Barbieri
Fonte: Il Manifesto del 14 febbraio 2021