Il recente articolo che ha pubblicato il nostro blog, riguardante – con riferimento a San Michele – l’abbandono dei foresi, al pari di altri pezzi pubblicati nei mesi scorsi, riporta l’attenzione al tema che sta caratterizzando l’azione di Ravenna in Comune.
Spopolamento, inurbamento, gentrificazione, ecc. sono alcuni dei termini che nel tempo sono stati utilizzati per indicare il progressivo abbandono delle campagne e dei piccoli centri. Un fenomeno che lo sviluppo capitalistico e la mentalità ipersviluppista considerano “fisiologico”. Indubbiamente, attualmente il criterio produttivo ed efficientista vince di gran lunga sui bisogni della persona (delle persone) e quindi ben poco prende in considerazione i desideri di convivialità, solidarietà e prossimità. Pertanto, sembra sia inevitabile che tutto si concentri in ambiti specializzati, forse più “razionali” da qualche punto di vista. Ma a che prezzo? Quando poi prendiamo atto che questa tendenza non coinvolge solo i luoghi del profitto, ma anche i servizi alla persona, molto c’è da interrogarsi per tutti, e quanto meno per una sinistra che del motto “prima le persone” ha fatto perfino uno slogan di campagne elettorali.
È sotto gli occhi di tutti, anche a Ravenna (in cui forse il fenomeno non assume gli aspetti quasi feroci delle aree metropolitane maggiori), che le periferie (tanto più, quanto più sono distanti) stanno subendo una costante e progressiva “punizione”, che le rende inevitabilmente subordinate a una concezione del vivere incentrato soprattutto sulla città. E non intendiamo soltanto riferirci al Centro Città, che almeno potrebbe avere un significato di difesa e di valorizzazione dei centri storici, ma soprattutto alla città intesa come luogo in cui si concentra il grosso del “giro d’affari”, in cui si può parcheggiare il grosso delle auto private, in cui si può “godere” del grosso delle disponibilità di merci e lasciare il grosso dei propri portafogli. Ne consegue la proliferazione di centri commerciali, i quali – già enormi – si espandono senza limiti, la “stradificazione” crescente e il conseguente allargarsi a macchia d’olio delle pompe di benzina, della cartellonistica pubblicitaria, e il progressivo trasformarsi dei centri commerciali stessi in aree di servizio che va ben al di là del commercio stesso. Sul modello americano (ma guarda…), quello dei pochi drugstores aperti ventiquattr’ore in cui si può trovare sempre “di tutto”.
Tanto per fare un esempio vicinissimo a noi, l’ampliamento dell’Ipercoop effettuato negli ultimi anni, e vissuto da tanta parte della gente come una “innovazione”, ha comportato l’ ulteriore cementificazione di un’area vastissima, la costruzione di una specie di “bretella” che la circonda come se fosse la tangenziale di un aeroporto (ma come ? diranno alcuni, se c’è anche la pista ciclabile…), svincoli che fanno venire il mal di testa, aumento di traffico automobilistico – in particolare in specifici momenti come il sabato pomeriggio, che ha comportato uno smisurato aumento dell’area parcheggio. E questo è solo ciò che si vede a un primo colpo d’occhio.
Ma che cosa comportano questi mostri commerciali per i piccoli esercizi delle frazioni? Sicuramente se lo saranno chiesto in molti, ma poi nel bilancio fra rischi (disastro economico per “il piccolo”) e benefici (incremento dei profitti “dei grossi”) evidentemente questi ultimi vanno sempre a pesare di più.
Non si vuole qui proporre in astratto una “retorica del negozietto”, ma è un dato evidente che molte frazioni del forese si stiano sempre più trasformando in aree–dormitorio, dal momento che la concentrazione delle attività lavorative, finanziarie e di servizio sulla città o nella cintura periurbana, toglie ai servizi e agli esercizi delle frazioni tutto il loro “potere contrattuale”, sul fronte dell’offerta erogabile e su quello dei prezzi praticabili. Ma non è un discorso che si possa limitare solo alle attività economiche. Anche i servizi sanitari (e complessivamente i servizi alla persona), l’offerta culturale, quella ricreativa, l’attenzione alla riqualificazione urbana e ai collegamenti continuano a considerare le campagne un mondo di serie B. Viceversa, siamo convinti che servizi, luoghi d’incontro ed esercizi commerciali delle frazioni possano svolgere un ruolo grandissimo nella costruzione di un vivere civile umano ed anche altamente razionale. Avere la possibilità di vivere tutti gli aspetti della quotidianità senza spostarsi troppo dal proprio paese, poter trovare sul posto una buona parte dei generi reperibili nei grandi centri commerciali e spendendo più o meno le stesse cifre, sarebbe un elemento di coesione sociale e di salvaguardia dello stile di vita della cittadinanza. Con conseguenti effetti positivi su svariati aspetti, quali – scusate se è poco – il traffico veicolare, in una realtà come la nostra, nella quale i trasporti pubblici fra forese e città lasciano assai a desiderare.
È giusto riferirsi a tutti gli aspetti della vita quotidiana, anche la vita culturale e le attività di “alto livello”. Una persona appassionata di libri deve per forza andare a visitare la grande libreria del centro o quella situata nel grande polo commerciale, quando nella frazione a due passi da casa sua potrebbe esserci una libreria, che oggi sopravvive a stento, e che sarebbe ben felice di ordinare ogni novità editoriale e magari organizzare presentazioni di autori anche di livello? E perché per comprarsi un bel maglione si deve andare per forza nelle zone-shopping della città, quando la piccola boutique del paese aspetta solo di vendere e incassare un po’ di più per potersi ampliare ed eventualmente dare lavoro? E chi l’ha detto che un artigiano o un professionista che vogliano aprire un’attività, soprattutto se a bassissimo impatto ambientale, come per esempio nel settore dell’artigianato artistico, degli studi di consulenza, dell’offerta ludico-ricreativa, debbano soltanto trovare “naturale” cercare una collocazione in quelle “aree produttive” i cui caratteri fondamentali sono spesso uno squallore indicibile, la difficoltà per l’utente a rintracciarli quando ne hanno bisogno e la sempre maggiore congestione. Non solo, ma perché bisogna subire il paradosso che per fruire di un parco ci si debba spostare verso l’area urbana? I “cittadini” penseranno che in campagna un parco è meno necessario, ma chi vive nel forese sa bene che il verde di campagna è assai poco fruibile. E gli esempi potrebbero infiniti.
La disastrosa pandemia che stiamo vivendo, fra l’altro, ha comportato la necessità di organizzare il telelavoro e dimostrato che nuove modalità di comunicazione e di scambio possano consentire di limitare fortemente gli spostamenti. Non potrebbe essere anche questo uno stimolo a ripopolare le piccole frazioni e organizzarne adeguatamente la vita?
La sinistra, quella che vorrebbe avere l’ambizione di proporre una “visione del mondo”, e non solo correre dietro alle scelte fatte dagli altri, deve ridisegnare una mappa del vivere, e la “riscossa” delle campagne deve avere un posto di primaria importanza. Diverse persone, negli ultimi anni, hanno scelto piccoli borghi o case di campagna come soluzione abitativa, per tante motivazioni diverse, almeno in parte improntate alla ricerca di uno stile di vita più a misura di persona, di anziani, di bambine e bambini piccoli. Ma tali scelte rischiano di produrre degli effetti collaterali paradossali, per esempio sul versante del traffico veicolare privato, se nei centri abitati piccoli e medio-piccoli non vi sono punti di riferimento del vivere la quotidianità.
Ecco che allora, la politica della sinistra (e qui va aperta una critica serrata sul fatto che il PD porta enormi responsabilità nell’aver favorito i processi in atto) e dei movimenti sociali, deve fare di questo uno dei temi portanti della propria azione, e sviluppare in tutti i modi possibile la vertenza per difendere – o riportare – nelle campagne i più basilari servizi alla persona (dal centro prelievi all’ufficio postale, alla farmacia, etc.), incentivare tramite agevolazioni di vario genere la ricomparsa di attività commerciali e produttive (naturalmente selezionando con serietà e rigore le proposte caratterizzate dal più basso impatto ambientale possibile) nei centri più remoti del forese, progettare la costituzione di vere “comunità energetiche” che puntino all’autosufficienza. E ovviamente riformare profondamente i trasporti pubblici, dal momento che il collegamento con la città, e dei vari centri fra loro, rimane un settore fondamentale.
Ravenna e il suo territorio, per le loro caratteristiche e le loro dimensioni si prestano ottimamente all’avvio di processi che invertano le tendenze in atto. Fenomeni che nelle grandi aree metropolitane risultano dolorosamente irreversibili, qui da noi non hanno ancora inferto troppe ferite fatali. Per cui si dovrebbe lanciare un’offensiva adesso, mirata a ripensare il rapporto città-campagna. Le discussioni sull’assetto urbanistico e sugli strumenti di attuazione devono essere occasione per avviare un ciclo di mobilitazioni di lunga scadenza e cercare in esse il coinvolgimento della popolazione. E Ravenna in Comune vuole essere un motore di questo processo.
Pippo Tadolini
Consigliere di Ravenna in Comune
Consiglio Territoriale Zona 7
[nella foto: lo sfregio del taglio dei tigli vanto di Ragone]