Si sta provando ad uscire dal lockdown dovuto alla pandemia ma il “sistema” cerca di far finta di niente. Come se fosse possibile ridurre tutto ad una questione di profilassi: una mascherina e via andare… Quanto mai opportuno, allora, riprendere con i ragionamenti su come sarebbe bene ripensare il mondo post-pandemico. Iniziamo la settimana con le ottime riflessioni di Iacopo Gardelli.
Iacopo Gardelli (Ravenna, 1990) laureato in filosofia, è giornalista e drammaturgo. Critico teatrale, collabora con giornali locali e riviste. Tra le sue pubblicazioni, la raccolta Tre dialoghi (2010), Coro a sei voci (2014) e il romanzo teatrale La città sfinge (2014). Assieme a Lorenzo Carpinelli, nel 2016 ha messo in scena il monologo Santa Europa Defensora, di cui è autore, L’ultimo primitivo. Vita orfica di Dino Campana (2018), scritto con Elia Tazzari, e La tecnologia va in vacanza (2018). Nel 2017 scrive il testo Scenderemo nel gorgo muti per il progetto “Dante in carcere”, che vede in scena i detenuti della casa circondariale di Ravenna e i ragazzi del Liceo classico “Dante Alighieri”. Nel 2018 vince il premio regionale “Il racconto in 10 righe” e il premio nazionale di critica teatrale Lettera 22 come miglior critico under 30. Nel 2019 scrive, per la regia di Lorenzo Carpinelli, Vite da niente. Cronache dall’economia digitale, che vede in scena 15 ragazzi under 30.
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L’opportunità di un virus
di Iacopo Gardelli*
Fra le decine di migliaia di riflessioni, opinioni, indagini, statistiche e rapporti che durante questa pandemia hanno attraversato l’info-sfera – per usare l’efficace conio di Luciano Floridi – non mi sembra di avere mai incontrato un’analisi approfondita della questione anagrafica che questo virus ha sollevato, svelando contraddizioni che, fino a qualche mese fa, venivano discusse solo molto timidamente dalla classe intellettuale o politica, e quasi sempre in atteggiamenti insopportabilmente elettorali.
Non so spiegarmi le ragioni di una tale lacuna, né è mio compito farlo. Sospetto tuttavia che alla sua base si annidi la deformazione politica che da sempre affligge i nostri intellettuali e che, durante i mesi di quarantena, ha avuto l’agio di sfogarsi in maniera più virulenta (!) e pervasiva che mai.
Si è parlato di pandemia in termini spesse volte ideologici, dimenticando che un virus non segue questo tipo di logiche e che per capirlo valeva più un manuale di teoria dell’evoluzione che non un saggio filosofico-politico. Si è polarizzato il dibattito in modo feroce fra sostenitori delle misure contenitive e critici del lockdown. Si sono agitate dialettiche anacronistiche fra i minimizzatori del rischio sanitario e acritici entusiasti delle commissioni tecnico-scientifiche. Se a sinistra i più hanno paventato il rischio di un ritorno a uno stato totalitario, a destra si è arrivati a giustificare il sacrificio del diritto alla salute sull’altare di ragioni meramente economiche.
Ora, i dibattiti scatenati dalla pandemia si sono quasi sempre polarizzati in scontri “verticali”, per così dire. Tecnici contro politici; medici contro economisti; stato contro regione; destra contro sinistra; forze dell’ordine contro “evasori; e così via. Ma poco si è fatto caso alla peculiarità anagrafica “orizzontale” che questo virus ha messo in risalto.
Se scorriamo i tristi numeri dei caduti di questa pandemia, ci rendiamo conto che ci troviamo davanti a un virus subdolo, che uccide i più deboli e risparmia i più forti. I caduti di questa pandemia sono gli anziani; e spesso quelli fra loro più fragili. Si è urlato alla dittatura e al controllo bio-politico dello Stato quando ci dicevano di rimanere a casa; non si è capito che la quarantena era una misura di solidarietà inter-generazionale. Non si doveva “rimanere a casa” per un conformistico rispetto a un potere tecnocratico (si leggano le esternazioni inopportune di Agamben), ma per salvaguardare la salute dei più deboli.
Ora, per la ripartenza, il dibattito oscilla fra chi accusa il governo di aperture troppo timide e chi invece teme per la risalita della curva dei contagi e l’accendersi di nuovi focolai. Ma poco si è riflettuto sulla natura del virus, che potrebbe darci un suggerimento utile per questa fase. Leggendo i dati dei decessi aggiornati al 7 luglio, si legge che i caduti under 39 in Italia ammontano a 86 a fronte di quasi 35 mila morti (fonte https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/ ). Ciò significa che più dell’85% delle vittime del Covid-19 si concentra fra gli over 70.
Quella stessa generazione che, durante i mesi di quarantena, ha per massima parte rispettato le misure contenitive in solidarietà verso i più anziani, adesso può, con lo stesso spirito, innescare la ripartenza socio-economica del paese. Basta darle spazio. Stiamo parlando di una generazione che, per motivi socio-economici complessi, vive nell’attesa di entrare nella vita attiva da decenni. Trascinandosi da un lavoretto all’altro, ha vissuto nella precarietà gli anni potenzialmente più produttivi dell’esistenza; c’è chi è andato all’estero per sentirsi valorizzato; chi attende da anni uno scatto di carriera che si fa sempre più remoto; chi si è rassegnato e ha smesso di sperare.
Non credo ci sia immagine più icastica di questo smarrimento della “movida”. Le foto nei Navigli di Milano hanno fatto giustamente scalpore; si è tacciato i ragazzi di egoismo, di essere viziati, di non collaborare alla riapertura del paese. Ma si continua a non capire che la movida è, nella sua essenza più comune, rappresentazione concreta del disagio di vite che non hanno “altrimenti”. Non siamo davanti a una gioiosa celebrazione di vita: quegli assembramenti fatti di alcol e spensieratezza sono in realtà un modo per ammazzare un tempo che non passa.
Quella generazione che ciondola da un gin tonic all’altro non aspetta che di essere impiegata, di mostrare le proprie capacità; di sostituire, per naturale avvicendamento, quella dei propri padri – che d’altra parte, non aspettano altro che la pensione. Per sbloccare il paese bisognerebbe forse considerare la possibilità di aperture differenziate su base anagrafica. Lascio a virologi il commento sulla fattibilità di tale proposta.
Resta il fatto che il virus potrebbe rivelarsi di grande importanza per l’accelerazione dello svecchiamento di un paese che, fra altri mille problemi, soffre quello della senilità – senilità sociale, politica, produttiva, intellettuale. Non si tratta di richiamare l’ormai corrivo problema della lotta fra generazioni, di giocare a boomer contro millennials. Si tratta di capire che c’è un paese che necessita di tornare alla normalità; e la risposta risiede proprio in quella generazione che da anni non viveva nella normalità di un lavoro, di una famiglia, di una giusta retribuzione.
Questa generazione può esporsi al pericolo del contagio con difese differenti a quella precedente; può reggere il confronto col virus senza intasare le terapie intensive, come dimostrano i dati degli asintomatici. Potrebbe certamente diventare veicolo di diffusione del virus; non si è tanto ingenui da non pensarci. Ma si tratterebbe, in questo caso, di adottare quarantene differenziate o distanze di sicurezza obbligatorie fra più anziani e più giovani.
È probabilmente venuto il tempo di responsabilizzare una generazione che non è né migliore né peggiore delle altre, intendiamoci; che farà senza dubbio errori, come ne hanno commessi le precedenti; ma che oggi ha le energie e le forze necessarie per sciogliere la contraddizione fra salute ed economia, fra esigenze cautelative e produttive; contraddizione che rischia di paralizzare l’intero paese.
*giornalista e drammaturgo di Ravenna, classe ’90.