Pubblichiamo un “nuovo capitolo” delle riflessioni che riteniamo indispensabili per affrontare “oggi” l’emergenza in atto. Che non è finita, anche se sempre più spesso abbiamo l’impressione che gli unici vincoli siano posti alle nostre libertà fondamentali: alle fabbriche, invece, si è concesso tutto! E poi il ragionamento lo abbiamo sollecitato anche per il “dopo”. Un “dopo” che, giorno dopo giorno, si prospetta come un “durante” di cui non si vede la conclusione.
Oggi abbiamo chiesto a Marisa Iannucci di aiutarci a far luce sull’intersecarsi di pena e rischio di contagio nei luoghi di detenzione che costituiscono il nostro sistema carcerario. Di cui, lo ricordiamo, è parte la Casa Circondariale di Ravenna, l’istituto che, allo scoppio della pandemia, si presentava con il più alto tasso di sovraffollamento in regione: il 180%!
Marisa Iannucci, nata a Ravenna nel 1971, è Presidente di Life Onlus, associazione attiva in diversi istituti penitenziari dell’Emilia Romagna. Studiosa dell’Islam e attivista per i diritti umani. Autrice di diverse pubblicazioni tra cui: “Gender jihad”, “Contro l’Isis”, “La ragione islamica”, “Sulle donne musulmane”, “Memorie dal carcere”. Nel 2016 è stata candidata per Ravenna in Comune alle elezioni comunali.
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Il Ministero della giustizia ha pubblicato i dati relativi alle presenze in carcere al 31 marzo, quando i detenuti erano 57.846, 3.384 in meno rispetto alla fine di febbraio. Si tratta di un calo delle presenze complessivo del -5,5% della popolazione detenuta in Italia, ma come si può immaginare il calo è distribuito in modo molto disomogeneo nel territorio nazionale. Se si guarda ai soli detenuti stranieri la loro diminuzione, del 4,7%, è di poco inferiore a quella del complesso dei detenuti, indice che per loro il ricorso al carcere continua comunque ad essere maggiore che per gli italiani nonostante, come è noto, in media commettono reati meno gravi.
La pandemia ha colto il sistema carcerario italiano in grande sofferenza come viene denunciato da anni dalle associazioni che vi operano in ogni città italiana e a livello nazionale, coordinate in tavoli, che hanno il polso della situazione costantemente, e ai primi casi di contagio, hanno avvisato che le condizioni attuali non potevano garantire il diritto alla salute dei ristretti. Non essendo diminuita a sufficienza la popolazione carceraria attraverso validi provvedimenti, il sovraffollamento che negli ultimi anni sta tornando ai drammatici livelli del 2011. Fu allora che il sovraffollamento toccò livelli altissimi e i giudici della corte di Strasburgo, in una sentenza di condanna per trattamento inumano sul caso di sette detenuti in carceri italiane, dichiarò che il problema delle carceri in Italia era strutturale e doveva essere risolto.
Nonostante l’art. 124 del decreto Cura Italia paresse dover quasi azzerare la loro presenza negli istituti, è piuttosto limitato il calo dei detenuti in semilibertà, che sono passati da 1.097 a 884, per evitare il loro reingresso quotidiano in carcere. Calano invece i provvedimenti di misura cautelare, a cui evidentemente si è fatto meno ricorso, sono circa il -7% in meno. Anche per questo al 9 aprile, i detenuti in carcere erano 55.939, segno che un calo delle presenze si sta ancora attuando, ma non è ancora sufficiente, e purtroppo è particolarmente limitato in regioni come il Veneto o il Trentino-Altro Adige, dove si registrano in carcere numerosi casi di Covid-19 tra detenuti ed agenti di polizia penitenziaria.
Immediatamente dopo la morte del primo detenuto per Covid-19 a Bologna – seguita da altri casi in tutta Italia – il presidente di Antigone, patrizio Gonnella, aveva dichiarato che “le carceri rischiano di diventare una bomba sanitaria che si può ripercuotere sulla tenuta stessa del sistema sanitario nazionale“. La grande promiscuità in cui sono costretti a vivere i detenuti – due o tre per cella e fino a sei in alcuni istituti – può facilmente far aumentare il numero di contagi. Basta leggere la stampa locale, gli istituti hanno casi di positività quasi ovunque. Inoltre lo stato di salute di chi vive in carcere, anche molti anziani, non è affatto buono: con il 67% dei reclusi che ha almeno una patologia pregressa, potrebbe rendersi necessario il ricorso al ricovero nei reparti di terapia intensiva. Senza contare che un contagio in carcere può oltrepassare quelle mura con il personale penitenziario e sanitario, a far da veicolo tra il dentro e il fuori. Intervenire urgentemente non è quindi un regalo ai detenuti, ma una logica e irrimandabile necessità a tutela della salute pubblica” afferma sempre Gonnella. Antigone si unisce alle voci di Cgil, Anpi, Arci e Gruppo Abele, Conferenza nazionale volontariato giustizia e Ristretti, chiedendo un nuovo provvedimento e modifiche al decreto esistente.
Attualmente i livello di sovraffollamento è tale che le celle – da due tre e fino a sei o sette detenuti -non consentono sicurezza igienica né spazio sufficiente al distanziamento. Il contenimento del contagio ha determinato la chiusura dei colloqui con i familiari, ma anche in molti istituti la sospensione delle attività riabilitative e socioeducative oltre, naturalmente alla chiusura dei corsi scolastici come in tutto il paese. Le rivolte del 9 marzo hanno nettamente peggiorato la situazione, danneggiando strutture e spazi già largamente insufficienti, provocando trasferimenti in altri istituti, difficoltà per il personale sanitario ed educativo a continuare a svolgere il loro lavoro. Il risultato è stato di una maggiore chiusura, in alcuni istituti ha comportato la chiusura delle celle -normalmente aperte con la sorveglianza dinamica e dei locali della socialità; per questo le persone che già non possono ricevere le visite dei parenti, troverebbero conforto in diverse forme di socialità compatibili con le precauzioni sanitarie.
All’aumentato isolamento si aggiunge la chiusura agli operatori sociali volontari, vero e proprio pilastro delle carceri italiane, che provvedono a tanti bisogni delle persone private dalla libertà personale: dalla relazione umana al sapone per lavare le mani per chi non può acquistarlo, e sono molti. Da quasi due mesi i volontari non possono entrare, con conseguenze importanti.
In particolare l’assenza dei volontari comporta per molti detenuti stranieri (circa un terzo del totale) il non poter contattare i parenti; sono tanti gli indigenti – italiani e stranieri – che non hanno il denaro per telefonare a familiari ed avvocati, e hanno necessità di espletare pratiche di patronato e simili; hanno poi ovviamente bisogno di beni di prima necessità, come la biancheria, vestiti puliti, prodotti per l’igiene personale.
Come avviene spesso nelle carceri, ogni direzione prende provvedimenti per gestire al meglio la situazione; così alcuni direttori hanno incrementato le telefonate ai familiari per supplire alla mancanza di colloqui, e ci si sta attrezzando con l’agognato Skype, atteso da tempo soprattutto per le chiamate internazionali. Il volontariato fa del suo meglio muovendosi tra le restrizioni, provvedendo a fornire prodotti per l’igiene anche ambientale, alle quali sarebbe stato bene accompagnare interventi di educazione sanitaria all’inizio dell’emergenza, per informare adeguatamente le persone su ciò che stava accadendo e su come comportarsi – avendone i mezzi – per evitare l’overloading information da televisione che in cella può essere devastante. Pur essendo quindi molto eterogenea la situazione delle carceri con la pandemia è ovunque negativa e spesso drammatica, e per molto tempo all’inizio dell’epidemia – ci dicono le associazioni – è regnato il caos: sono state denunciate molte violenze (ad Antigone) poca informazione sanitaria, scarsità di presidi di protezione, provvedimenti insufficienti per garantire una dignitosa socialità alle persone ristrette.
Le stesse associazioni chiedono alle istituzioni che si ripristini dappertutto – e per tutti – un collegamento con le famiglie (telefonico, via email o skype), e che vengano riammessi i volontari -almeno i più giovani – per garantire i colloqui, l’assistenza amministrativa, legale e la fornitura di vestiario e di beni di prima necessità.
La pandemia ha fatto esplodere il problema carcere che da anni cresce come un bubbone senza che nessuno se ne curi, se non chi ci lavora come operatore o volontario, nella totale indifferenza della politica e del resto della società, spesso con la sensazione di voler svuotare il mare con un bicchiere. Il virus ha colpito un mondo chiuso, ignorato da tutti, che ha necessità di provvedimenti seri, a partire dalla soluzione al sovraffollamento (almeno diecimila persone in più di ciò che è umanamente possibile), dalla riorganizzazione del personale penitenziario, dalla fornitura di servizi che nel resto d’Europa esistono da tempo (email, skype), dalla qualità dell’assistenza sanitaria che varia moltissimo da un istituto ad un altro. Ma soprattutto di un cambiamento culturale, che consideri i detenuti persone e veda la pena come una possibilità di recupero totale della persona e non come una punizione, e questo richiede molto di più che un decreto.
Marisa Iannucci
Le istituzioni agiscono nella totale illegalità; i sindaci non intervengono dimenticando il loro ruolo di autorità sanitaria locale; alla procura di Bologna abbiamo inviato un esposto per la morte del primo detenuto e stiamo preparando il secondo esposto per il secondo decesso; la Ausl di Bologna, interpellata il 2 gennaio per il secondo rapporto semestrale 2019 non risponde, nè risponde alla nostre reiterate richieste di accesso ai dati epidemiologici sula situazione interna; in questo clima è maturata la strage di Modena, Bologna, Frosinone; poi sono arrivate le dimissioni del capo del Dap non come forma di autocritica per la strage ma perchè qualche magistrato di sorveglianza ha applicato le leggi !
In quest quadro senz’altro i detenuti meritano il nobel per la pazienza che rischia ormai di debordare nel masochismo.
Dobbiamo seguire con attenzione la inchiesta sulla strage avanzando istanza di costituzione di parte civile anche anche perchè le prime dichiarazioni delle procure fanno pensare più alla favola del lupo e dell’agnello che alla disponibilità a ricostruire davvero quello che è successo.
Vito Totire, rete per la ecologia sociale-Bologna