MAFIE E CAPORALATO NEL SISTEMA REGIONALE

Ieri sera Massimo Manzoli per Ravenna in Comune ha partecipato ad un dibattito online organizzato da Potere al Popolo dal titolo “Fase 2 in Emilia-Romagna: combattiamo l’epidemia della precarietà”. Riportiamo di seguito uno stralcio del più ampio intervento su “Mafie e caporalato nel sistema regionale”:

«In un periodo di crisi e di emergenza sanitaria, le mafie su cosa investono? Come sappiamo da Falcone e Borsellino in avanti, capire dove va il flusso di denaro delle mafie nei periodi storici è capire dove le mafie si vanno ad appoggiare. Da noi, ad esempio, c’è il settore agricolo dove l’illegalità, che chiamiamo così perché ancora non si può parlare di illegalità mafiosa, è estremamente diffusa. Si tratta di un’illegalità che si differenzia da territorio a territorio. In Emilia la prevalenza è data all’allevamento e alla trasformazione dei prodotti. In Romagna è diverso. Nel ravennate il settore più importante è quello della raccolta della frutta e della verdura. Per cui anche quella forma di sfruttamento illegale del lavoro, che chiamiamo caporalato, assume forme diverse. In Emilia è una illegalità con caratteristiche di continuità durante tutto l’anno, gestita da gruppi organizzati. In Romagna si avvicina di più alla figura stereotipata del caporale, quello che si incontra al sud nella raccolta dei pomodori, per capirci.

E questo dà luogo anche a conseguenze sul piano del contrasto al fenomeno. La mancanza di continuità fa spesso preferire agli inquirenti altre forme di illegalità sulle quali indagare. Ad esempio “beccare” lo spacciatore con pochi grammi di marijuana è più semplice e spesso preferito rispetto alla complessità delle indagini e operazioni richieste per contrastare fenomeni complessi come il caporalato in Romagna. Anche se negli ultimi anni sono poi emersi diversi casi, frutto di diverse inchieste. L’ultimo, che ha interessato il ravennate, ha riguardato un gruppo di origine pachistana, che riceveva in “subappalto” il lavoro della raccolta della frutta e della verdura. Teneva i lavoratori rinchiusi in condizioni di schiavitù: retribuzioni bassissime su cui gravavano una serie di costi non evitabili dai lavoratori, come mangiare, dormire, il trasporto nei campi o anche solo l’allaccio alla rete elettrica. Le caratteristiche a livello locale sono quelle delle dimensioni ridotte dei gruppi, della stagionalità, del ricorso a lavoranti provenienti dall’estero.

Il fenomeno del caporalato, d’altra parte, è esteso anche ad altri settori a Ravenna e in Romagna. Basta pensare al settore industriale del porto, in cui gran parte della manodopera presente nelle aziende, anche quelle grosse, non è direttamente impiegata ma assunta da imprese che operano in appalti e subappalti. Cooperative finte, spurie, che lavorano senza controlli, chiamando spesso a giornata.

Non si parla mai, invece, di un altro grande settore di sfruttamento nell’illegalità: il cosiddetto mercato del sesso. Estremamente esteso nel nostro territorio. La domanda potrebbe essere: durante questa pandemia le lavoratrici del sesso, di cui nessuno parla, dove sono? Come vivono? Lavorano ancora? Che fine hanno fatto? Rispondere a queste domande vuol dire capire come le mafie sfruttano questo settore e capire anche la divisione tra i livelli di azione delle mafie, dove in genere i grandi traffici sono gestiti dalle mafie italiane che subappaltano i traffici minori alle mafie straniere. Così mentre la ‘ndrangheta tratta il prezzo dei grandi carichi di cocaina con le organizzazioni sudamericane, il piccolo spaccio è in mano nordafricana. In genere è la delinquenza visibile quella affidata agli stranieri. Ai nigeriani (e non solo!), ad esempio, va la prostituzione. Così le mafie giocano anche sulla forma mentis razzista, sempre pronta a fare equivalenze tra straniero e delinquente.

Nell’ambito dello sfruttamento, dunque, non ci si può limitare a ragionare di ripristino dei diritti sottratti ai lavoratori a causa della precarizzazione dei rapporti, tralasciando quel che accade nel mondo del lavoro dell’illegalità.

Per tornare alla mafia vera e propria, in Emilia-Romagna le condanne definitive per mafia sono pochissime, perché arrivare a dimostrare l’esistenza di un’associazione mafiosa operante nel territorio è estremamente complesso. La legislazione italiana norma fenomeni che andavano per la maggiore 20 anni fa. Prevede ancora come requisito essenziale la minaccia fisica sul territorio. Andrebbe adeguata alla realtà del presente. Se abbiamo caporali appartenenti a organizzazioni che reclutano persone in uno stato estero e, dopo averle minacciate e sfruttate, le riportano dopo alcuni mesi all’estero, non si riesce a condannarli per associazione mafiosa. Dovrebbe diventare terreno di azione della sinistra proprio la rivendicazione di un adeguamento della normativa alle fattispecie di sfruttamento dove le mafie sono andate ad inserirsi. Altrimenti resteremo con un racconto giornalistico che parla di mafia ed una magistratura che la esclude potendo al più inquadrarla entro i confini di reati di tipo finanziario».

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