Il giorno dopo il 26esimo anniversario del rapimento di Abdullah Öcalan, detto Apo, da parte del regime turco, il 15 febbraio 1999, Ravenna in Comune ricorda una data particolarmente sofferta per la sinistra italiana. Ci porta infatti alla mente che Öcalan aveva chiesto asilo politico dopo essere arrivato in Italia nel novembre 1998 ma gli fu concesso solo un anno dopo quando già era in carcere in Turchia. Come noto porta un particolare biasimo per questa vicenda, come del resto per altre (come i bombardamenti in Jugoslavia intervenuti poco tempo dopo) l’allora Presidente del Consiglio, Massimo D’Alema.
Nel gennaio 2016 la nostra giovanissima lista (era nata pochi mesi durante l’estate) organizzò una importante iniziativa assieme ad alcuni membri della Carovana per Kobane e ad esponenti delle comunità curde in Italia sulle conquiste politiche e sociali del popolo curdo e la risposta militare del governo turco. Riportiamo dal volantino dell’iniziativa: «Le popolazioni del Kurdistan siriano e turco negli ultimi tempi hanno iniziato un importante processo di emancipazione che vuole ridefinirne la condizione. Le teorie del leader Abdullah Ocalan, le pratiche di autogoverno, ma anche un rivoluzionario approccio alle questioni di genere, insieme alla millenaria eredità storica e culturale, sono alla base della lotta di un popolo che intende affermare le basi per una nuova convivenza universale». Ad oggi la questione curda è ancora irrisolta e la repressione militare è quanto mai di attualità.
Ripercorriamo i giorni “italiani” che precedettero il rapimento del leader curdo (da allora rinchiuso dentro la ’İmralı F Type High Security Closed Prison, appositamente costruita per la sua detenzione) pubblicando due interviste, uscite rispettivamente il 14 e il 15 febbraio su Il Manifesto, a Massimo D’Alema e a Ramon Mantovani.
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Massimo D’Alema: «Abdullah Ocalan fu catturato dai servizi israeliani»
Massimo D’Alema ricostruisce quanto avvenne tra il 1998 e il 1999: l’arrivo in Italia del leader curdo, il ruolo del governo, l’arresto.
Intervista di Chiara Cruciati
Il 12 novembre 1998 Abdullah Ocalan, fondatore del Partito dei Lavoratori del Kurdistan (Pkk), sbarca a Fiumicino da un aereo partito da Mosca. Aveva da poco lasciato la Siria, cacciato dopo anni di ospitalità. La polizia italiana lo arresta, primo atto di una delle vicende che ha più segnato la questione curda e il suo rapporto con l’Italia: nei due mesi trascorsi a Roma, intorno al leader si genera una mobilitazione senza precedenti e una presa di coscienza collettiva della lotta di liberazione curda.
Su una delle mensole nel suo ufficio romano, l’allora presidente del Consiglio Massimo D’Alema conserva una targa: una stella rossa e sopra la sigla Pyd, Democratic Union Party, la forza politica della sinistra curda siriana fondata nel 2003 e da 13 anni una delle anime del confederalismo democratico in atto nella regione. Il primo governo D’Alema era nato poche settimane prima dell’arrivo di Ocalan. Resterà in carica per altri dieci mesi dopo la cattura del leader curdo, avvenuta a Nairobi il 15 febbraio 1999, esattamente un mese dopo aver lasciato l’Italia.
Il governo sapeva che Ocalan stava arrivando in Italia?
No. Fu Rifondazione ad avere un ruolo, in particolare Ramon Mantovani, ma non in accordo con il governo. Fui informato la notte in cui Ocalan arrivò in Italia. Su di lui pendeva un mandato di cattura tedesco. Noi eravamo e siamo tuttora vincolati alla Germania dal Trattato di Schengen, se una persona con un mandato di cattura europeo viene in Italia lo dobbiamo arrestare.
Ed è successo, Ocalan è stato arrestato a Fiumicino.
La mattina stessa parlai con il cancelliere Schroeder: la Germania non intendeva inoltrare la richiesta di estradizione per ragioni di sicurezza interna, c’era la preoccupazione che un processo a Ocalan in Germania avrebbe potuto creare tensioni tra comunità turca e comunità curda. Avremmo potuto fare una forzatura, metterlo su un aereo e mandarlo a Berlino, ma siamo persone sagge. Ocalan fu liberato e diventò ospite del governo italiano, condotto per ragioni di sicurezza in una villa protetto dalle forze dell’ordine, dove ricevette persone, ebbe incontri. Era un uomo libero, ma protetto. Si scatenò un inferno: ci fu un’immediata richiesta di estradizione da parte della Turchia. Noi la respingemmo sulla base del principio costituzionale per cui non consegniamo persone a paesi nei quali rischiano la pena di morte.
Che tipo di pressioni subì il governo?
Si aprì una crisi diplomatica molto pesante che coinvolse imprese italiane con investimenti in Turchia. Ci furono manifestazioni contro l’Italia ad Ankara, anche tentativi di assalto alla nostra ambasciata. Il presidente Usa Clinton mi chiamò dicendo che stavamo proteggendo un terrorista e che la Turchia era un paese membro della Nato, gli andava consegnato. Gli americani presero anche posizione pubblicamente, non fu solo una pressione privata.
Alcuni protagonisti dell’epoca parlano anche di pressioni di Confindustria.
Non dico pressioni, ma da Confindustria vennero da me delegazioni di imprenditori per gli interessi italiani minacciati in Turchia. E nel frattempo ci fu un’iniziativa per la concessione a Ocalan dell’asilo politico. Noi interrogammo la commissione per l’asilo che ci diede un parere contrario: a una persona con un mandato di cattura per omicidio all’interno dell’Unione europea non possiamo concederlo.
L’asilo però fu concesso, mesi dopo.
Il tribunale ha ritenuto che si potesse dare l’asilo. Ma nel frattempo lui se n’era andato.
Ma il governo si costituì parte civile contro la richiesta di protezione.
L’Avvocatura difese il parere che ci aveva fornito la commissione: sarebbe stato difficile riconoscere l’asilo a una persona considerata un terrorista a livello internazionale.
La decisione del tribunale avrebbe risolto il problema. Non si sarebbe trattato più di una decisione politica. Non avreste potuto aspettare?
Ci sarebbero stati problemi seri comunque. Anche con l’asilo avremmo dovuto proteggerlo, sarebbe stato un bersaglio. Avevamo un dialogo con Ocalan, attraverso persone, amici comuni, curdi, palestinesi, che ci aiutarono a dirgli che nella sua condizione avremmo potuto garantirgli l’uscita dall’Italia in condizioni di sicurezza. L’asilo non avrebbe cambiato la sua condizione.
Avrebbe permesso di tenerlo in Italia.
Ma lui era un uomo libero, nessuno gli ha impedito di rimanere qui. Poteva andare dove voleva. Vorrei essere chiaro: non lo abbiamo espulso, non è stato consegnato a nessuno. Intorno a quella villa c’erano servizi segreti di mezzo mondo, turchi, americani, israeliani. Era comunque in una condizione di pericolo, con o senza l’asilo politico. Alla fine lui si convinse che fosse ragionevole andarsene.
Ex avvocati di Ocalan hanno raccontato di un’opera di convincimento che ha riguardato anche i consiglieri stessi del leader curdo. Che ruolo ha avuto il governo?
Era giusto che lui andasse via, quello che è stato sbagliato è ciò che è accaduto dopo. Noi abbiamo fatto in modo che se ne potesse andare dall’Italia in condizioni di sicurezza, cosa che non era affatto banale dal punto di vista organizzativo.
Esisteva già una destinazione finale?
C’era una destinazione intermedia e c’era una destinazione finale. Gli americani non si accorsero di nulla. Attraverso determinati accorgimenti, risultò a tutti essere ancora qui quando in realtà se n’era già andato. Fu un’operazione abbastanza complessa e fu gestita borderline: un’operazione così non poteva essere interamente gestita dai nostri apparati senza che gli americani lo sapessero. Il capo della polizia mi disse che avrei dovuto trovare io la via. Organizzammo tutto molto bene: lui scomparve e arrivò in una base militare di un altro paese. Da lì doveva andare in Sudafrica.
Perché a vostro avviso il Sudafrica avrebbe dovuto essere più sicuro dell’Italia?
Nel nostro paese era stato individuato, era circondato. Nessuno avrebbe saputo che si trovava in Sudafrica.
Poteva restare qui sotto protezione.
Sarebbe stato un affare di Stato per tutta la vita. Avremmo dovuto creare un fortilizio in Italia. Ocalan l’ha capito, era una persona di buon senso. In nessun paese occidentale poteva essere al sicuro. Il Sudafrica era un paese amico, indipendente, meno condizionato dall’Occidente. Il vice presidente sudafricano Mbeki era l’erede di Nelson Mandela, erano compagni e questa era una questione che poteva essere affrontata solo tra compagni. Al contrario la Grecia gli ha offerto una protezione molto meno limpida: noi lo abbiamo protetto alla luce del sole, ce ne siamo presi la responsabilità con crisi diplomatiche, danni economici, litigi con gli americani. Ci siamo presi la responsabilità di dire che non lo avremmo consegnato alla Turchia.
Tra Russia e Sudafrica, come si inserisce la Grecia?
Feci un accordo con il primo ministro russo Primakov e con il vicepresidente sudafricano Mbeki: Pretoria lo avrebbe accolto non ufficialmente, ma ospitato e protetto. Quando Ocalan arrivò a Mosca, però, decise diversamente: accettò un invito riservato del governo greco. O meglio, del ministro degli esteri greco Pangalos che controllava i servizi segreti esterni. Pagalos, mi raccontò il primo ministro socialista Simitis, aveva preso contatti con i curdi e invitato Ocalan senza informare il governo. Così il leader curdo fu ospitato in alcune ambasciate greche in Africa. A Nairobi gli dissero che doveva partire perché c’era un paese europeo che gli avrebbe dato l’asilo politico.
Invece?
Invece non era vero, Ocalan fu venduto da un ufficiale dei servizi greci. Sulla via per l’aeroporto fu preso, secondo quello che mi dissero i greci, dagli israeliani. Furono gli israeliani a catturarlo e consegnarlo ai turchi, così mi fu detto.
Ha parlato di litigi con gli americani. Che tipo di pressioni ha subito?
È chiaro che quando viene un ambasciatore americano e quando ti telefona il presidente degli Stati Uniti la cosa ha un certo peso. Con garbo gli si può dire di no come è stato fatto: siamo un paese libero se vogliamo fare uso della nostra libertà. Credo che gli americani lo facessero perché questa vicenda aveva dei risvolti di carattere geopolitico: in quel momento c’era uno scontro tra Europa e Usa perché che gli europei volevano realizzare il South Stream, il gasdotto che dalla Russia doveva arrivare nell’Europa meridionale. Gli americani sostenevano un progetto alternativo, un gasdotto dall’Azerbaigian. Il paese chiave era la Turchia perché entrambi i progetti passavano per il Mar Nero. Creare una frattura tra Turchia e Unione europea era interesse americano. Mostrarsi amici della Turchia era interesse americano. Penso che a Clinton di Ocalan non importasse, ma il fatto che una tensione tra Turchia e Italia gli faceva gioco.
Era quello un periodo centrale per la questione curda. Dall’Italia Ocalan lanciò le basi per il processo di pace.
La questione riguarda la Turchia, la necessità di superare un nazionalismo turco che ha origini ottomane. Non credo che la presenza di Ocalan in Italia avrebbe potuto cambiare il corso della politica turca. Noi abbiamo fatto quello che si poteva fare nelle condizioni date. Abbiamo la coscienza tranquilla: non abbiamo consegnato Ocalan a nessuno e abbiamo sempre sostenuto la necessità di una soluzione politica al riconoscimento dei diritti del popolo curdo in Turchia, Siria, Iraq e Iran.
In quei due mesi ha mai incontrato Ocalan?
No, mai.
Non ci ha nemmeno parlato al telefono?
Non mi ricordo, ma era complicato. D’altro canto ci sono dei limiti entro cui si svolge il mandato del presidente del Consiglio. Non è un uomo libero.
Fonte: Il Manifesto del 14 febbraio 2024
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Ocalan, Ramon Mantovani risponde a Massimo D’Alema
Il dirigente di Rifondazione Comunista racconta l’arrivo del leader del Pkk in Italia e il ruolo del governo italiano, in risposta all’intervista dell’ex presidente del Consiglio uscita sul manifesto
Di Ramon Mantovani
Mi fa estremamente piacere, lo dico sul serio, che Massimo D’Alema tenga ad apparire come amico del popolo kurdo e a cercare di autoassolversi dalle responsabilità che ebbe nella vicenda che portò al sequestro illegale del presidente Abdullah Ocalan. Significa, che nonostante tutto, il corso degli eventi e la statura politica di Ocalan lo hanno indotto ad esternare le cose che ha detto nell’intervista rilasciata a Chiara Cruciati sul manifesto del 14 febbraio 2025.
Mi corre però l’obbligo, per il rispetto che si deve al presidente Ocalan e al popolo kurdo, di fare alcune precisazioni su quanto dichiarato da D’Alema.
Ho più volte, ed anche recentemente a una agenzia kurda, detto che a Rifondazione Comunista, attraverso il sottoscritto, fu richiesto di aiutare il presidente Ocalan a venire nel nostro paese in quanto si trovava in pericolo di vita in Russia, dove i servizi di intelligenza di Eltsin, divisi al loro interno, potevano consegnarlo da un momento all’altro alla Turchia. Per farlo non esitammo a usare tutta la nostra capacità di relazioni interne ed esterne all’Italia e a mantenere, come chiunque sappia come funzionano queste cose può ben immaginare, il riserbo e la confidenzialità su tutti i nostri contatti.
IL NOSTRO AIUTO e la mia personale partecipazione nelle nostre intenzioni erano e dovevano rimanere riservate, sia perché non siamo mai stati abituati, come altri, ad usare lotte e drammi di altri popoli e movimenti per motivi di “visibilità”, sia per evitare che la provincialissima stampa italiana usasse il nostro coinvolgimento per miserabili polemiche interne che avrebbero nuociuto alla causa kurda. In altre parole, non fummo noi ad avere l’idea di “portare” (come scrissero e dissero tutti i giornali e tutte le tv) Ocalan in Italia per dare fastidio al governo o per altri strampalati obiettivi di politica interna. Come se il leader di un popolo di trenta e più milioni di persone si facesse “portare” dal sottoscritto come un pacco.
Anzi, mi preoccupai di spiegare bene ad Ocalan che l’Italia, fra i paesi Nato europei, era sempre stata il paese più servile ed obbediente agli ordini Usa. Ma il presidente Ocalan insistette per venire in Italia sostanzialmente per due motivi. Il parlamento italiano era stato un anno prima, approvando una mia risoluzione, l’unico parlamento europeo a riconoscere l’esistenza di un conflitto armato in Turchia e a impegnare il governo italiano ad adoperarsi per una soluzione negoziata e pacifica.
Il primo effetto che ebbe la risoluzione fu che vennero concessi da quel momento in poi migliaia di status di rifugiati a cittadini kurdi con passaporto turco. Lo stesso ministro degli interni Napolitano, rispondendo alla Camera ad interrogazioni della destra, disse che così si doveva fare in seguito a una decisione della commissione esteri.
Il secondo effetto fu un invito di Ocalan d incontrarlo in Siria al quale andammo Alfio Nicotra, Walter De Cesarias e io. Incontro di cui Liberazione dette notizia con tanto di fotografie. Ocalan era convinto che l’Italia, per questo e anche perché paese della Nato e sede del Vaticano, era il luogo migliore per proclamare un cessate il fuoco unilaterale da parte del Pkk e proporre alla Turchia di aprire un negoziato.
Questi, e non altri, furono i motivi che fecero scegliere al presidente Ocalan l’Italia, per cercare di trasformare una difficoltà in una opportunità. Questi, e non altri, furono i motivi che ci indussero a fare tutto il possibile per aiutare il Pkk e Ocalan sia per la solidarietà internazionalista, che era ed è un principio irrinunciabile del nostro partito, sia per far compiere, se possibile, dei passi al nostro paese per contribuire alla soluzione pacifica di un conflitto iniziato con il colpo di stato fascista dell’esercito turco agli inizi degli anni ’80.
Ciò che dice D’Alema sull’arresto di Ocalan è vero solo in parte. Io stesso dissi a Ocalan, arrivati a Fiumicino, di recarsi al passaggio dei passaporti diplomatici, di dichiarare la propria identità, di consegnare il passaporto falso che aveva con sé e di chiedere asilo politico. Tempo dopo scoprii che la relazione della polizia di stato alla magistratura diceva che Ocalan aveva tentato di attraversare la frontiera con un passaporto falso e, riconosciuto, era stato tratto in arresto.
Lo venni a sapere con precisione quando fui indagato come indiziato del reato di favoreggiamento di ingresso clandestino, avendo dovuto confermare le voci di una mia partecipazione, sicuramente fatte circolare da servizi di intelligenza prima in Grecia e poi in Italia.
SEPPI ANCHE da un deputato di Alleanza Nazionale che Berlusconi in persona si apprestava a diffondere la notizia del mio accompagnamento di Ocalan in una conferenza stampa. È così vero ciò che dico che il magistrato che mi interrogò concluse il mio interrogatorio quando spiegai che quel che dicevo circa Ocalan che si diresse al passaggio dei passaporti diplomatici, cosa piuttosto bizzarra per chi volesse entrare clandestinamente nel nostro paese, lo avrebbe potuto verificare visto che c’erano numerose telecamere che dovevano per forza aver registrato il fatto.
Del resto Ocalan era atteso da un nugolo di agenti che effettivamente lo arrestarono, ma dopo aver ascoltato la richiesta di asilo, e lo condussero fuori dalla sala della frontiera insieme alla sua segretaria e al portavoce in Italia dell’Ufficio di Informazione sul Kurdistan che fungeva anche da interprete. Il magistrato nel congedarmi mi disse che le registrazioni dell’aeroporto di quel giorno e di quell’ora erano sparite. L’accusa contro di me venne archiviata per questo.
Orbene, i casi sono due: o D’Alema, o chi per lui alle sue dipendenze, si è dimenticato di aver ordinato alla polizia di stato di redigere una relazione falsa sull’arresto di Ocalan, oppure ciò è stato fatto a sua insaputa autonomamente da apparati dello Stato deviati o al servizio di un altro paese. In entrambi i casi si tratta di cose gravissime che avrebbero dovuto avere un seguito giudiziario. Inoltre mi pare di ricordare che l’allora responsabile esteri dei Ds, Umberto Ranieri, qualche anno dopo scrisse che il governo era stato informato e che aveva commesso un grave errore ad accettare che Ocalan venisse in Italia. Ma forse la mia memoria è difettosa.
Quanto alle pressioni a me risulta che vennero da più parti. Certo i più attivi furono gli Usa come dice lo stesso D’Alema. Ma a parte le telefonate riservate che cita D’Alema la segretaria di stato Madeleine Albright disse pubblicamente che l’Italia doveva estradare Ocalan in Turchia, e cioè oltre a intromettersi in una vicenda che riguardava due stati sovrani (almeno formalmente) ordinava al governo italiano di violare una legge della Repubblica, che vieta esplicitamente di estradare chicchessia verso un paese che lo potrebbe condannare a morte.
AD ALBRIGHT nessuno del governo italiano rispose adeguatamente con una dichiarazione a tutela della nostra sovranità e anche della nostra dignità come paese. Anche le imprese belliche italiane, pubbliche e private, esercitarono le loro pressioni. E a me risulta che anche alti funzionari dello Stato compirono atti tesi a condizionare il governo.
Si può anche facilmente verificare, consultando gli archivi delle agenzie di stampa italiane, che ci fu un giorno nel quale la mattina il presidente del Consiglio e il ministro della giustizia dissero che il governo non era competente sulla concessione o meno dell’asilo (cosa che D’Alema nell’intervista non dice raccontando, invece, di aver consultato la commissione per l’asilo) e lo stesso giorno nel pomeriggio ben tre ministri, e non ministri qualsiasi perché erano Dini, ministro degli esteri, Scognamiglio, ministro della difesa, e Fassino, ministro del commercio con l’estero dissero che il governo NON DOVEVA CONCEDERE L’ASILO, in parte smentendo D’Alema e Diliberto. Strano che la stampa italiana composta in parte da un esercito di dietrologi, di pettegoli, di incompetenti sulla politica estera e di ricercatori di piccoli e grandi scoop, non si accorse di questo piccolo dettaglio.
Infine, io non posso dire nulla su cosa avvenne dopo la partenza di Ocalan dall’Italia tranne che alla fine dopo il suo sequestro illegale in Kenya dovettero dimettersi tre ministri greci, a cominciare dal ministro degli esteri.
Però posso portare una testimonianza perché prima della partenza, quando Ocalan valutava il da farsi anche sulla base di ciò che gli avevano consigliato gli avvocati Pisapia e Saraceni (che erano anche deputati della Repubblica) i quali, al contrario di quanto afferma D’Alema, a me risulta lo avessero consigliato di rimanere in Italia giacché le accuse che gli venivano rivolte nella richiesta di estradizione erano teoremi politici più che accuse circostanziate, e avrebbero superato la prova di qualsiasi tribunale italiano che le avesse esaminate.
Vero è invece, in esecuzione di un trattato fra Italia e Turchia precedente il colpo di stato militare e mai annullato, che un minuto dopo il rifiuto ufficiale dell’estradizione qualsiasi magistrato italiano avrebbe potuto arrestare Ocalan e sottoporlo a giudizio secondo le accuse della magistratura turca.
LA MIA TESTIMONIANZA è che Ocalan mi disse che se l’avessero arrestato in Italia secondo il trattato di cui sopra, pur non temendo il processo, pensava che il popolo kurdo avrebbe vissuto il suo arresto in Italia come una sconfitta che avrebbe potuto provocare reazioni disperate e incontrollate. Io, ovviamente, mi limitai a descrivere cosa sarebbe successo se fosse rimasto condividendo l’opinione degli avvocati e rassicurandolo sulla crescita del movimento di solidarietà con il popolo kurdo, ma non mi permisi di dare consigli e tanto meno indicazioni.
Poche ore dopo il mio colloquio vennero da me esponenti di primo piano del Pkk che mi informarono, dato il rapporto fraterno fra noi e loro, che il movimento pensava che il loro presidente avrebbe dovuto rimanere in Italia ma che, ovviamente, avrebbe avuto l’ultima parola sul da farsi. Solo a quel punto dissi loro a nome del mio partito che anche noi eravamo della stessa opinione e che se poteva servire usassero questa informazione per convincerlo a rimanere. Ho detto tutto questo per testimoniare dello spessore umano e politico di Ocalan che prima che a sé stesso pensò al suo popolo. Il che è più o meno il contrario di quel che fanno i governanti europei e italiani in particolare.
Abdullah Ocalan è il Nelson Mandela (chissà come sarebbe passato alla storia chi non avesse concesso asilo al Mandela capo militare della Anc) del popolo kurdo. I suoi scritti in carcere sono una elaborazione che tutta la sinistra mondiale dovrebbe studiare e sono alla base del fatto che il Rojava è l’unico posto in Medio Oriente dove c’è democrazia, dove le donne hanno gli stessi diritti degli uomini e dove le persone di diverse etnie e religioni convivono pacificamente. Invece è tutt’oggi bersaglio di bombardamenti e di attacchi continui da parte della Turchia (con le armi fornite dalle industrie belliche italiane) e dell’Isis.
Noi combatteremo sempre per la liberazione di Abdullah Ocalan che consideriamo anche un nostro punto di riferimento politico e teorico.
Fonte: Il Manifesto del 15 febbraio 2024
[nell’immagine: il carcere dell’isola prigione turca di İmralı nel mar di Marmara dove Abdullah Öcalan è rinchiuso in isolamento da 26 lunghi anni]
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