RICORDO DEL PAGURO

Nei giorni in cui qualcuno, riferendosi alle estrazioni di idrocarburi al largo di Ravenna, straparla di “tutela del nostro gas a chilometro zero”, come se avessimo a che fare con l’uva canina o le pere volpine, bisogna per forza ricordarci del Paguro.

  • Perché altrimenti un’improbabile narrazione bucolica scaccia la realtà mortale del lavoro in piattaforma.
  • Perché in piattaforma non si muore solo per arrivarci. Dall’aria, come è successo agli uccisi dell’elicottero. O dall’acqua, come per i decessi delle navi. O da terra, nelle tanti morti durante il tragitto fino a Marina di Ravenna e ritorno. Ma è proprio la piattaforma un luogo di morte. 

Come accadde col Paguro, prima di diventare una zona di tutela biologica tra i 10 e i 35 metri sotto il livello del mare.

Come ben sanno le famiglie di Pietro Peri, Arturo Biagini e Bernardo Gervasoni, annientate dalla nube di fuoco che avvolse la struttura tra il 28 e il 29 settembre 1965 prima di affondare

 

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